giovedì 23 febbraio 2017

110 Ostrica B.O., Joaquin A.A., 2014

Di Antonio Indovino

Campania Greco IGT, 110 Ostrica B.O., Joaquin A.A., 2014
  
Eccomi qui, ancora una volta, a parlare di un progetto di Raffaele Pagano, di Joaquin A.A. (di cui potete leggere la storia al seguente link).
Proprio così, un progetto e non un vino. Perchè ogni sua etichetta è un qualcosa di irripetibile, è un qualcosa in cui Lui e Sergio Romano si limitano al ruolo di accompagnatori. Perchè ogni vino ed ogni annata vanno sì interpretati, ma nella loro diversità intrinseca che deve pur venir fuori. Ecco quindi l'idea di vini non convenzionali, caleidoscopici nel bicchiere, non tutti ripetibili d'anno in anno. Ed il 110 Ostrica B.O., ottenuto con uve provenienti da Petrulo (sotto le miniere di zolfo), è uno di questi.

110 perchè il progetto Greco nel 2008 (prima delle 3 annate prodotte) era il top di gamma, allora Oyster perchè per la legge del contrappasso un'ostrica la ammazza: vennero fatti batonnages per 2 mesi consecutivi. Nel 2013 il progetto si ripete, anche se con un profilo totalmente diverso. Nel mezzo tra le due annate niente, ma arriva la 2014. Un vino diverso se paragonato alla 2013, molto più concentrato (comunque meno della 2008): per questo motivo gli viene dato un nome diverso, Ostrica, affiancato dall'acronimo B.O. che sta per "bis orange". Un ragionamento astruso, fatto di sigle e di logiche di pensiero che possono sembrare di difficile interpretazione. La chiave di lettura ci viene data da una frase di Raffaele che forse meglio rappresenta e sintetizza la filosofia di Joaquin A.A.: non'è importante il nome Joaquin sulle mie etichette, ma ciò che c'è scritto sotto, Avellino-Italia (*)! Perchè l'avellinese è un territorio unico, eguale a pochi altri al mondo per il modo in cui sa marcare sotto il profilo organolettico le varietà principe che lo rappresentano (*). Perchè ogni anno bisogna guardare all'avellinese come ad una mappa catastale sulla quale scegliere quali uve, e da quale sottozona, elevare a progetto di vino del territorio (*).
In tutti i casi vi è macerazione pellicolare, non vengono fatte chiarifiche e filtrazioni, in alcuni casi (come per il Greco) si eleva in botti scolme: in tutti i casi, come da filosofia Joaquin, se ci si occupa di qualcosa lo si fa in maniera poco ortodossa (*)! Quale uva migliore, se non il Greco, il distorsore sulla chitarra elettrica, per sintetizzare l'anti-ortodossia alla base dei progetti
(*)?
(*) citazioni Raffaele Pagano

Tutto ciò, infine, si materializza in un calice che ci parla di un'espressione estrema, quasi indomita, di questo vitigno.
La veste lievemente opalescente è tinta dall'oro antico.
Al naso tantissima mineralità sulfurea e di polvere da sparo, tra cui fanno capolino ricordi di frutta gialla candita, di frutta secca, di miele, di resina e cosmesi, il tutto su una leggera nota ossidativa di fondo. 
In bocca mostra tutta la sua austerità, nuda e cruda, giocando su acidità e sapidità notevoli: a tratti mi sembra di avere una miniera in piena bocca! Lungha la chiusura del sorso che insiste sui toni terziari ed ossidativi.

Per certi versi ricorda i vini da Savagnin del Massiccio della Giura, che per tradizione si abbinano a formaggi a pasta semi-dura come il Comtè.
Probabilmente non mi dispiacerebbe abbinarlo ad un Vitello Tonnato, anche se, per dinamismo nel calice, cattura l'attenzione tutta su se stesso facendo passare il resto in secondo piano. Le condizioni imprescindibili per apprezzarlo appieno sono fondamentalmente 3: una temperatura non inferiore ai 14°C, un ampio calice per dargli il giusto respiro e la propensione all'assaggio di un orange wine a tutti gli effetti. 


Prezzo in enoteca: 30-35€
Contatti: www.joaquinwines.com

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia, 
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina 

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venerdì 17 febbraio 2017

Niederberg Helden, Schloss Lieser, 2015

Di Antonio Indovino 

Lieser Niederberg Helden Riesling Spätlese 1L VDP, Schloss Lieser, 2015
 
Ci troviamo nella Mittelmosel, la zona per così dire "Classica", ovvero quella in cui si concentrano tutti i vigneti storici. Un tratto che costeggia la Mosella per 120 Km, nel Distretto della Rheinland-Pfalz, e più precisamente nel villaggio di Lieser: incastonato in questo sorprendente scenario ed a pochi passi dall'antico e famoso borgo di Bernkastel-Kues. L'intero villaggio è dominato dal castello di Schloss Lieser e dalla cantina omonima che guardano i vigneti dal basso. È qui che notoriamente venivano prodotti alcuni dei più grandi vini della Mosella sino al declino degli anni '70, anno di vendita della cantina ed inizio di un "passaggio di mani" abbastanza fortunoso. 
La ripresa è iniziata nel 1992 con l'arrivo di Thomas Haag, figlio d'arte (di Fritz Haag), dapprima come direttore e responsabile di cantina, per poi divenirne il titolare con l'acquisto nel 1997.
Un nuovo percorso, libero da tutti gli schemi se non quelli qualitativi, durante il quale mettere in campo sia le nozioni apprese a Geisenheim che l'esperienza maturata nell'azienda di famiglia. 20 anni di duro lavoro grazie ai quali la Weingut Schloss Lieser è tornata a primeggiare (come testimoniano i riconoscimenti della Gault&Millau), rinconquistando il lustro d'un tempo, e durante i quali Thomas è stato eletto viticoltore dell'anno nel 2015. L'ascesa di Thomas è stata poi coronata dal sogno di tutti i produttori della Mosella: gestire in affitto 1 dei 3,5ha del vigneto mitologico di Bernkasteler Doctor.
Difficile provarci e riuscirci, poichè l'unico modo certo è avere i requisiti minimi richiesti dalle Fondazioni proprietarie delle vigne e superare le loro rigide selezioni, per poi usufruirne per un tempo determinato: proprio così, visto che le Holdings si riservano di mantenere una ciclicità nella gestione del Bernkasteler Dr., selezionando periodicamente tra i migliori interpreti nel panorama enologico della Mittelmosel.
La maggior parte del lavoro di Thomas si concentra ovviamente a Lieser, nei 13ha di proprietà, la cui maggioranza è concentrata nel Lieser Niederberg Helden (vigneto classificato Erste Lage), cui si aggiungono Brauneberger Juffer e Brauneberger Juffer Sonnenuhr.


Il vigneto di Sonnenuhr 
Si alleva solo Riesling in questi vignetta (70enni) esposti tutti tra sud e sud-ovest, con altitudini massime di 300m e pendenze che arrivano a sfiorare anche l'80%. Ciò che caratterizza maggiormente queste vigne, oltre al notevole dislivello, è l'ardesia blu (risalente al Devoniano), che affiora fino in superficie e compone la matrice del suolo per il 70%, nella quale le viti affondano le loro radici beneficiando oltrettutto del suo effetto "termoregolatore": le placche infatti accumulano il calore diurno rilasciandolo gradualmente nelle ore notturne.  
A ciò si unisce il rispettoso, duro, e certosino lavoro in vigna. Operazioni effettuate unicamente a mano, nella maggior parte dei casi legati agli apici dei filari con delle funi per evitare cadute accidentali.
Altrettanto rigorosa è la selezione delle uve, per consentirne la giusta

concentrazione nei grappoli, con rese che sfiorano a malapena i 55 hl/ha. La vendemmia avviene in più passaggi, durante i quali si cerca di raccogliere soltanto i grappoli che abbiano raggiunto la maturità ottimale.
In cantina, dopo la pressatura, il mosto fiore viene fatto fermentare in acciaio per opera dei lieviti indigeni. Solitamente, a causa delle temperature basse, le fermentazioni sono molto lente e, come da tradizione, vengono interrotte con delle decantazioni a freddo non appena si raggiunge il residuo zuccherino desiderato: un marchio di fabbrica, un modo per far si che nel vino gli zuccheri naturali ricordino l'aspetto primordiale del mosto.
Infine, prima dell'imbottigliamento, i vini effettuano un breve passaggio in legno (più o meno lungo a seconda dell'annata)

Ho avuto la fortuna di assaggiare lo Spätlese di Haag, il Niederberg Helden, degustato con, e grazie, l'amico sommelier Giovanni Starace. Di seguito vi riporto le nostre sensazioni/impressioni in merito.
Sicuramente ne siamo stati affascinati fin da subito per l'aspetto, per la tenue tonatità paglierina, attraversata da bagliori giovanili.
Al naso è incredibile per come si sia lasciato "leggere" con grande nitidezza ogni volta che ci siamo avvicinati al calice. L'impatto iniziale è di frutta, l'agrumato del mandarino in primis, acompagnato da un taglio erbaceo, poi pesca bianca ed in seguito la nota funginea di champignon ed un lieve sentore di affumicato a marcarne in maniera inequivocabile in profilo olfattivo.
La beva è disarmante ed imbarazzante al contempo, per l'impatto, per il bassissimo tenore alcolico (7,5%), per la dolcezza accennata ma puntualmente bilanciata da freschezza e sapidità, per la lunga chiusura di bocca in cui si ripetono le sensazioni talvolta morbide, talvolta acidule.
Di sicura prospettiva, ma difficile da conservare se si pensa alla grande bevibilità.
 

Ne abbiamo apprezzato al meglio le caratteristiche in un calice abbastanza voluminoso ed affusolato ad una temperatura compresa tra i 12 ed i 14°C, credendo che possa essere il compagno ideale di una serata dalle contaminazioni etniche, magari con un buon Sushi.
 

Prezzo in enoteca: 30-35€
Contatti: www.weingut-schloss-lieser.de


Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Degustatore Ufficiale e Responsabile de GDS AIS Penisola Sorrentina

 
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mercoledì 15 febbraio 2017

Bianco di Bellona, Tenuta Cavalier Pepe, 2005

Di Antonio Indovino

Irpinia Coda di Volpe DOC, Bianco di Bellona, Tenuta Cavalier Pepe, 2005


Ci troviamo a Luogosano, in terra Irpina, lungo i versanti collinari che guardano il corso del Calore. È qui che nel 2005, con la prima vendemmia, è partita l’avventura di Milena Pepe nell’Azienda di famiglia.
Dopo la laurea in Marketing e Gestione Aziendale all’EPHEC di Bruxelles (2003), intermezzata dal lavoro ai tavoli di uno dei ristoranti di famiglia lì in Belgio,  Angelo, il papà, le propone di occuparsi dell’Azienda Agricola nell’Avellinese.
La necessità di un quadro più completo hanno fatto si che gli studi di Milena proseguissero in una direzione specifica.
In Provenza frequenta il corso di Marketing del Vino a “l'Universitè du Vin” a Suze-la-Rousse, lavorando in contemporanea per il Domaine Chapoutier (Tain l'Hermitage): qui è nata la sua passione per gli aspetti chimici, agronomici ed enologici.
Successivamente frequenta, quindi,  il corso di Viticoltura ed Enologia a Macon-Davayé in Borgogna, approfondendo al contempo gli aspetti tecnici legati alla gestione di un vigneto ed alla vinificazione delle uve: un trampolino di lancio per l’approdo al “Domaine La Janasse” (Chateauneuf-du-Pape), dove ha condotto le sue prime vinificazioni.
Un prologo non da poco che le hanno consentito di avviare con maggiore consapevolezza la propria Azienda Vitivinicola, Tenuta Cavalier Pepe, lì in quelle terre che hanno dato i natali al papà Angelo e da cui prende prende il nome per l'onoreficenza di Cavaliere della Repubblica per meriti morali e professionali.
Gli inizi, come sempre, non sono mai rosei ma Milena ha saputo “farsi le ossa” districandosi soprattutto tra la burocrazia e la legislazione vitivinicola italiana: totalmente diversa da ciò con cui aveva avuto a che fare oltralpe.
Da subito è nato un fortissimo attaccamento a quel territorio e, la “maternità” dei vini prodotti, unitamente alla consapevolezza delle grandissime potenzialità della terra e dei vitigni Irpini, hanno fatto si che ne sia diventata una strenua sostenitrice. Difatti nel 2007 è stata Consigliere del Consorzio Tutela Vini d'Irpinia, per poi divenirne addirittura il Presidente dal 2013!
Una crescita personale e professionale, nella quale ha saputo affiancarsi delle giuste figure, come Marco Moccia (agli inizi) e Gennaro Reale (in forza dalle ultime 3 vendemmia).
Una crescita soprattutto nelle vigne, dove si è passati dai 23ha iniziali agli attuali 50, in cui si è scommesso da subito, e si è insistito, sulla Coda di Volpe come varità da interpretare in purezza e non come comprimaria (uva da “taglio”).
Una crescita, mi si perdoni il gioco di parole, nei servizi che la Tenuta sa e può offrire ai suoi consumatori: non solo cantina e vini, ma anche olio, accoglienza e ristoro.  


con Robeno Cono durante la degustazione
Ho avuto la fortuna di poter partecipare alla prima verticale storica di Bianco di Bellona, al Palazzo Vialdo, su invito di Giustino Catalano: qui consulente ed organizzatore della sarata.
Le tematiche sono state fondamentalmente 2: la longevità di questo vitigno “minore”, la contaminazione delle nostre tavole da nuove tendenze del gusto.
Quanto alle nuove tendenze, alle contaminazioni etniche ed alla co-partecipazione del vino, vanno sicuramente premiati la voglia e l’impegno di accompagnare con le “nostre” proposte nel calice le preparazioni più disparate. Tra “fraseggi” più o meno riusciti (ci concediamo anche qualche contaminazione poetica), la ricerca dell’equilibrio, benché scevra da tecnicismi, si è giocata su toni più emozionali quali il piacere della tavola e della convivialità.
Dopo la digressione puramente gastronomica, scendo maggiormente nei dettagli di quello che è stato l’argomento principe della serata: la longevità della Coda di Volpe.
Un percorso attraverso 10 calici, di altrettante annate: un viaggio a ritroso che

ha delineato in maniera netta, o pressocchè tale, la curva di maturazione di questa interpretazione del vitigno. Dato per assodato che il fattore annata incida inequivocabilmente, così come lo stile del produttore, e dati per scontati i valori analitici della composizione chimica di un bianco da Coda di Volpe, dove gli acidi fissi sicuramente non sono ai livelli di altre varietà campane più blasonate (leggasi falanghina, fiano e greco), è stato sorprendente il riscontrarne l’equilibrio ottimale nella 2010.
Un salto indietro di 6 annate che, dalla comparativa con 3 a lei contigue (2009, 2011 e 2012), ha mostrato come il Bianco di Bellona abbia raggiunto la massima armonia a distanza di 5/6 anni dalla vendemmia, e come nelle annate più "vecchie" abbia conservato comunque una buona piacevolezza sul piano gustativo, nonostante la chiave di lettura fosse da ricercare, talvolta, in un lieve disequilibrio, o in una chiusura piacevolmente dominata dalla sapidità.
Non mi dilungo nel racconto delle singole annate, piuttosto sono qui a riportare le mie personali impressioni sulla 2005, da intendersi non come la “summa maxima” sul piano qualitativo, ma bensì come la massima espressione di longevità di questo vino di Milena (essendo la prima annata in assoluto).

Il protocollo di vinificazione è restato pressocchè invariato negli anni, salvo delle normali e conprensibili differenze legate all’interpretazione dell’annata.
In tutti i casi sempre e solo acciaio, con una sosta sulle fecce fini che si protrae per circa 2 mesi oltre la fermentazione alcolica, completato dall’illimpidimento a freddo prima dell’passaggio in bottiglia.

Nel calice non nasconde gli anni, ma non tradisce affatto.
Fa bella mostra di se per la sua veste dalla tonalità che ricorda l’oro antico, composto nelle roteazioni del calice e dotato ancora di una buona vividezza del colore.
Il naso denota da subito un profilo evoluto, in cui si alternano profumi che ricordano gli agrumi canditi, le albicocche mature,accenni di miele, il fieno, la cera ed il talco.
In bocca è il vino che non ti aspetteresti. Sicuramente morbido sul piano tattile, e con una percezione pseudo-calorica ben pronunciata, acquista spessore scorrendo lento nella cavità orale, complice la freschezza che ha leggermente ceduto il passo alla sapidità, e chiude discretamente lungo con buona coerenza rispetto al quadro olfattivo indugiando soprattutto sui toni fruttati ed eterei.
 


Prezzo in enoteca: 5-10€ (per le ultime annate in commercio)
Contatti: www.tenutapepe.it


Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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martedì 14 febbraio 2017

Kratos, Luigi Maffini, 2013

Di Antonio Indovino

Paestum Fiano IGT, Kratos, Luigi Maffini, 2013 (500 ml)

Eccomi qui, ancora una volta, a parlare con piacere di un vino di Lugi Maffini.
Non l'ultima annata commercializzata, anche stavolta, poichè i suoi vini sono tra quelli da riassaggiare volentieri negli anni successivi e capaci di regalare sempre maggiori emozioni nel calice.
Oggi è toccato al Kratos, il top seller per eccellenza nella sua tipologia, nonchè la prima etichetta di casa Maffini (prodotto dal '96). È proprio con il Kratos che Luigi e la moglie Raffaella, pionieri in terra cilentana, hanno spopolato acquisendo l'attuale notorietà.
Come detto poc'anzi, ho precedentemente parlato dell'azienda Maffini e pertanto vi rimando alla degustazione del Pietraincatenata 2007 (link) nella quale troverete tutte le informazioni di natura storica ed il contesto orografico.

Veniamo dunque al Kratos 2013, di vui ho avuto modo di provare il formato da 500ml.
I vigneti, situati nei pressi di Castellabbate, sono allevati a spalliera con potatura a guyot, con una densità d'impianto che oscilla tra i 3500 ed i 4000 ceppi/ha e rese intorno agli 1,8 Kg per pianta. 
La vinificazione, a differenza del "fratello maggiore", avviene esclusivamente in acciaio, con una sosta sulle fecce fini di circa 4 mesi che ne precede l'imbottigliamento e la successiva commercializzazione.
 
Nel calice si presenta con una densa e vivida veste paglierina dai bagliori dorati.
Il naso è un elogio alla mediterraneità con contaminazioni esotiche. 
Ad un'ananas non perfettamente matura si affiancano profumi di albicocca e della sua mandorla, note agrumate di pompelmo, di iodio, di fiori di ginestra e di macchia mediterranea. 
Il sorso è asciutto, riscalda ed avvolge piacevolmente il palato, e sorretto da un gran comparto fresco/sapido. Appaga per lunghezza e coerenza anche la chiusura di bocca, dove a farla da padrona sono pricipalmente i richiami fruttati ed erbacei.

Ho avuto modo di apprezzare il Kratos in un calice di media grandezza ed apertura, ad una temperatura che idealmente si aggirava intorno ai 10°C. 
Ritengo che possa essere il giusto compagno in tavola al fianco di un piatto di Paccheri con Cozze e Patate.
 
Prezzo in enoteca: 10€ (riferito al formato da 500 ml)
Contatti: www.luigimaffini.it


Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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martedì 7 febbraio 2017

Dosaggio Zero, Andrea Arici, S.A.

Di Antonio Indovino

Franciacorta DOCG, Dosaggio Zero, Andrea Arici, S.A.
 
Ci troviamo tra Cellatica e Gussago, in terra di Franciacorta, nella porzione all'estremo orientale dell'areale di produzione della denominazione, alle pendici delle Alpi Bresciane. È qui che è iniziata a fine anni '90 la storia dell'Azienda Agricola Colline della Stella.
Andrea Arici, poco più che ventenne, e studente alla facoltà di Viticoltura ed Enologia all'Univeristà degli Studi di Milano, decide di recuperare alcuni vecchi vigneti abbandonati da anni: un lavoro lungo e faticoso. La prima scommessa è avvenuta in vigna: Cellatica è una zona da rossi (Barbera, Marzemina, Schiava) ma si punta prima sullo Chardonnay ed inseguito sul Pinot Nero.
L'impianto è avvenuto a piccoli passi, parcella dopo parcella, a step di circa 0,5 ha per volta e non poteva essere altrimenti: Andrea è uno di quelli che si è "tirato su" da solo, dilazionando nel tempo la realizzazione del vigneto.
Il primo passo, man mano che le vigne diventavano produttive, è stato quello di conferire la sua produzione ad aziende locali, ma la svolta è arrivata nel 2002.
L'assaggio dei "vini base" fu fulminante: freschezza e sapidità si fondevano nella struttura degli stessi donando nerbo ed elegaza. La vinificazione era stata condotta unicamente in acciaio ed il motivo non poteva che risiedere nel terroir delle sue vigne. Sui rilievi prealpinici dove crescono i suoi vigneti i 2 fattori predominanti sono la morfologia marnoso-calcarea del suolo e le temperature mediamente più alte con sbalzi termici maggiori. Da ciò ne conseguivano sicuramente la grande acidità, la mineralità tagliente e l'espressione aromatica legata alla maggiore maturazione fenolica. È così che si decise di destinare una parte di quei vini alla produzione di un Franciacorta (3000 bt) senza compromessi, che non fosse dosato e che trasmettesse quelle differenze sostanziali, quella forte connotazione territoriale, senza morbidezza alcune a mascherarle.
Fondamentale è stato il supporto in cantina (nei primi anni) dell'amico ed enologo Nico Danesi, conosciuto all'univerisità, e nella comunicazione di Giovanni Arcari: entrambi un tassello importante nell'avvio dell'Azienda sotto i profili produttivi e del marketing. Dagli inizi ad oggi l'Azienda Agricola Colline della Stella è cresciuta dal 1/2 ettaro agli attuali 10, dalle 3000 bt alle odierne 50000 in media (secondo annata), ma soprattutto è cresciuto il numero di estimatori di queste etichette fortemente rappresentative.

Il motivo? lo si può riassumere in due citazioni di Andrea Arici:
1) "Il vino, con la sua tipologia di vitigno, deve sempre essere espressione di un territorio, di una cultura, di un pezzo di terra, di un cielo e di un uomo. Crediamo nel rispetto della terra e dell’uomo che ha deciso di coglierne i frutti con scrupolo e intelligenza. Crediamo nella nostra passione. Crediamo nel nostro lavoro. "
2) “Il vino è la poesia della terra”, scritta dal più appassionato, generoso e instancabile degli autori che cerca di plasmare i propri sogni!"

Quest'oggi ho avuto la fortuna di assaggiare il Franciacorta "base",

l'entry level della gamma, non per questo il più banale.
È ottenuto da Chardonnay e Pinot Nero, nelle rispettive percentuali del 90 e 10%, provenienti da diverse parcelle dislocate tra i 150 ed i 350m d'altitudine. La vinificazione avviene esclusivamente in acciaio con una sosta di 6 mesi in acciaio sulle proprie fecce prima del blend. La rifermentazione si protrae per un periodo cha va dai 22 ai 24 mesi, secondo annata, cui segue un'ulteriore sosta in vetro di 3 mesi a seguito della sboccatura/ricolmatura senza dosaggio alcuno.

Calice alla mano lo si apprezza innanzitutto per la grande fattura e finezza del perlage che dona brillantezza al manto paglierino.
Al naso tanta mineralità, gesso in primo piano, con un susseguirsi di profumi che ricordano i fiori di sambuco, il limone e la pera, la mandorla, le erbe aromatiche e fragranti accenni di crosta di pane. Il sorso ha carattere, è teso, impreziosito da una grande freschezza e sapidità che donano agilità ed invitano immediatamente al sorso successivo, ancor prima che svaniscano gli aromi gessosi ed agrumati.

Ho avuto modo di apprezzare questo Franciacorta in un calice più voluminoso della classica flûte, ma dall'apertura comunque stretta, ad una temperatura di circa 6°C. Personalmente lo abbinerei ad una Quiche rustica, con formaggi e salumi. 



Prezzo in enoteca: 20-25€
Contatti: www.collinedellastella.com

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Degustatore Ufficiale e Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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giovedì 2 febbraio 2017

Sassella Rocce Rosse, AR.PE.PE., 2001

Di Antonio Indovino

Valtellina Superiore Sassella Riserva DOCG, Rocce Rosse, AR.PE.PE., 2001

Ci troviamo in Valtellina, una meravigliosa valle incastonata fra le Alpi Retiche e le Orobie. Qui le "Rupi del Vino" (alias i terrazzamenti di roccia granitica sfaldata), sorrette da muretti a secco, corrono parallele all'arco alpino affacciandosi sull'Adda. È proprio qui che dal 1860, anno dell'unità d'Italia, la famiglia Pelizzatti profonde il suo impegno nell'allevamento e vinificazione del "Nebbiolo delle Alpi". Una storia lunga oltre 150 anni che ha vissuto una sola battuta d'arresto, tra gli anni '70 ed '80. In seguito, nell'84, Arturo Pelizzatti Perego decise di rimettersi in gioco, rilevando nuovamente l'attività ceduta pochi anni prima, le medesime vigne e la cantina ipogea in località “Buon Consiglio”. Il fascino e l'unicità del terroir di quelle "Terrazze di Sonrdio", unitamente alle potenzialità ed all'ineguagliabile variabilità genetica della Chiavennasca (convarietà del Nebbiolo), costituirono un richiamo troppo forte. L'azienda riprese vita quindi sotto il nome di AR.PE.PE. (acronimo del nome di Arturo). L'obbiettivo dichiarato alla ripartenza era quello di tradurre nel calice la storia di questa vallata, in cui la terra è intrisa del sudore di uomini che continuano tutt'ora a coltivarla con le loro mani.
I principi fondamentali su cui si basava la visione di Arturo si possono sintetizzare in 3 semplici parole: tradizione, innovazione e sostenibilità. Tali principi sono tutt'ora portati avanti dalla 5° generazione, da Emanuele, Guido ed Isabella.
La tradizione viene portata avanti attraverso la manualità di tutte le operazioni in vigna (talvolta si raggiungono anche 1500 ore di lavoro/ha), attraverso le lunghe attese per la giusta maturazione dei vini e l’imbottigliamento scandito ancora dalle fasi lunari, cui segue il giusto riposo in bottiglia.
L'innovazione nell'allevamento della vigna (come la "potatura soffice" di Simonit&Sirch) e nell'utilizzo di elettroutensili.
La sostenibilità nella lotta integrata (limitando all'osso i trattamenti fitosanitari), nello sfruttamento dell'energia geotermica delle falde d'acqua (fonte pulita e rinnovabile), nella perfetta integrazione con l'ambiente delle zone adibite all'accoglienza e nell'impiego di pavimentazioni fotocatalitiche all'esterno delle stesse.
Questo è ciò che accade da AR.PE.PE., tra i 13 ha di vigne, inerbite ed impervie, e la cantina: contesti in cui sono gli stessi fratelli Pelizzatti Perego a curare l'aspetto agronomico ed enologico, nonchè il risultato finale prima della commercializzazione (ad esempio la pessima vendemmia 2008 non'è stata imbottigliata).

Quest'oggi sono qui a parlarvi del Sassella Rocce Rosse 2001. Una riserva

frutto di quelle vigne aggrappate tra i 400 ed i 550 m di altidudine, il vino della rinascita (sotto una nuova luce) prodotto proprio a partire dal 1984 e che deve il nome a Giovanna, la moglie di Arturo. Rese bassissime in vigna di 40 hl/ha, 30 gg di macercazione in cemento, poi 4 anni di botti da 50 hl, ed ancora in cemento prima dell'imbottigliamento: questo è stato il lungo percorso di matutrazione di questa Riserva che nel 2013 è stata premiata come uno dei migliori 100 vini al mondo.

Nel calice il vino si presenta con una vivida e trasparente veste dalla tonalità granata che sfuma verso l'aranciato sull'orlo.
Al naso, in progressione, sono emersi profumi di amarene sotto spirito, di liquirizia, di pepe, balsamici di incenso e menta, tostati di tabacco ed orzo, per concludere su una nota di caramello.
In bocca è morbido e succoso al primo impatto, per poi mostrare il suo carattere con una fitta (seppur matura) trama tannica, godendo dello slancio una buona spalla acida ed impreziosito da una elegante e piacevole scia sapida e lunghi richiami di note fruttate e tostate.

Ho avuto modo di apprezzare il Rocce Rosse 2001 in un ampio calice ad una temperatura che idealmente si avvicinava ai 16/17°C, godendo della sua escalation in un arco di circa 3 ore dall'apertura. A mio parere potrebbe essere il compagno ideale di qualche ardita preparazione a base di Capriolo. Non trovandomi in Valtellina, però, mi sono accontentato di una succulenta Costata alla Brace: si sa, dove c'è gusto non c'è mai perdenza......e con un vino del gene in tavola non si perde mai.



Prezzo in enoteca: 35-40€ (per le ultime annate in commercio)
Contatti: www.arpepe.com

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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