mercoledì 26 ottobre 2016

Monte di Grazia Bianco, 2012

Di Antonio Indovino

Campania Bianco IGT, Monte di Grazia, 2012


Avendo già parlato precedentemente dell'Azienda, ed in particolare del "Rosato" (link), riporto dalla scheda precedente le informazioni di natura storica ed il contesto orografico.

Ancora una volta sono qui a parlare di un vino nato in una zona unica dal punto di vista geografico, per morfologia del suolo, per il microclima e per il fascino che suscita negli abitanti stessi ed in milioni di turisti che la visitano ogni anno.
Ci troviamo nella splendida cornice della Costiera Amalfitana, esattamente a Tramonti, un'enclave racchiusa nei Monti Lattari, una vera e propria gola che scende dai 700m di altitutine fin sulla costa, a Maiori, a 270m s.l.m.
Il singolare contesto pedo-climatico trae beneficio dalle brezze marine mitigatrici e dal mix di argilla e prodotti piroclastici effusivi che vanno a comporre la matrice del sottosuolo.
È qui che il Dott. Alfonso Arpino, nel 1993, si ritrova in eredità 3 piccole vigne sparse nelle frazioni di Tramoniti: Monte di Grazia, Madonna del Carmine e Casa di Mario.
Da sempre la famiglia Arpino ha prodotto vini per consumo proprio e venduto le uve nel vicino agro nocerino-sarnese, ma con gli anni è venuto meno il cambio generazionale nelle vigne, con l'abbandono delle stesse da parte dei vecchi coloni.
Il Dott. Arpino si è ritrovato così a gestire in prima persona quei vigneti a pergola unici e ricchi di storia, quelle viti centenarie a piede franco che solo lì trovano dimora, con la volontà di portare avanti innanzitutto la tradizione vitivinicola, nonchè di valorizzarne l'unicità adesso ben nota a tutti. 
È così che è nata l'idea di dar vita ad un'Azienda Agricola. Il primo passo è stato l'acquisto del vigneto Casina nel 1996 (dove attualmente risiede la cantina, un tempo un vecchio rudere), il successivo è stato la conversione al regime biologico nel 1997, cui sono seguiti l'acquisto dell'appezzamento a Vignarella nel 2003 e l'incontro chiave con Gerardo Vernazzaro nello stesso anno.
L'enologo partenopeo da subito è rimasto affascinato dall'unicità di quelle vigne su cui mai aveva messo mano prima di allora, decidendo di collaborare ad un progetto di vini altrettanto unici nel loro genere: frutto del duro e rispettoso lavoro in vigna ed in cantina. 

Nel 2004 è così iniziata la vinificazione delle uve sotto il nome dell'Azienda Agricola Monte di Grazia, una produzione destinata ad un mercato di nicchia fatto di attenti appassionati e professionisti del settore in grado di apprezzare il frutto di quei 2,7ha di vigne: sole 9000 bt nelle migliori annate!

Quest'oggi ho avuto la fortuna di degustare il Monte di Grazia Bianco 2012, un vino di cui vengono prodotte circa 700 bt l'anno. Ottenuto da Biancatenera, Ginestra e Pepella (nelle rispettive percentuali del 50, 30 e 20%), allevate a pergola (più recisamente col tpico sitema della raggiera) e con una bassisima resa che si aggira sui 30 q/ha. La vinificazione avviene in acciaio (dal 2009 la fermentazione alcolica avviene ad opera dei lieviti indigeni), con una sosta sulle fecce fini di circa un mese, periodo durante il quale viene svolta parzialmente la fermentazione malolattica. Successivamente il vino viene filtrato e resta a maturare in acciaio fino alla primavera successiva, dopodichè viene imbottigliato e lasciato ad affinare per ulteriori 6 mesi prima della commercializzazione.

Nel calice il vino si presenta con una vivida veste tendente al dorato e dalle nuances verdoline.
Il naso è sottile in prima battuta. Dopo un pò si apre rivelando profumi che ricordano la mela golden, la mandorla, la buccia di limone, il pepe bianco, il timo, ed una nota minerale che ricorda il gesso.
Il bocca il vino ha una discreta morbidezza ed avvolgenza in ingresso, poi teso e con una lunga scia sapida in cui si ripetono le note erbacee ed agrumate.


Ho avuto modo di apprezzare il Bianco di Monte di Grazia in un calice di media grandezza ed apertura ad una temperatura che idealmente dovrebe aggirarsi sui 12°C o poco più.
Personalmente lo abbinerei ad un piatto di Gramberoni al Forno.

Prezzo in enoteca: 10-15€
Contatti: http://montedigrazia.eu


Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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sabato 22 ottobre 2016

Fioranello Rosso, Tenuta di Fiorano, 2014

Di Antonio Indovino  

Lazio Rosso IGP, Fioranello, Tenuta di Fiorano, 2014

Ci troviamo alle porte di Roma, tra il Parco dell'Appia Antica e le pendici dei Colli Albani. Qui la nobile famiglia bolognese dei Boncompagni Ludovisi acquistò delle terre della Santissima Annunziata e Monastero della Purificazione (La Tenuta di Fiorano) e vi si trasferì tra la fine del '600 ed i primi del '700. Cominciarono a produrvi vino, per uso proprio e da viti locali, intorno al 1930 ma, la svolta avvenne nel 1946, anno in cui il Principe Alberico ricevette dal padre la proprietà agricola di Fiorano. I vini lì prodotti vennero ritenuti di un profilo qualitativo non sufficiente, motivo per cui Alberico decise di avvalersi della consulenza di un famoso enologo: Giuseppe Palieri. Sotto suo consiglio si decise di abbandonare la locale tradizione vitivinicola e di incentrare la produzione su vini di altissima qualità. Fu così che vennero innestati (pionieristicamente) sui ceppi di Fiorano il Merlot ed il Cabernet Sauvignon (in proporzioni pressocchè identiche) e, separatamente, la Malvasia di Candia ed il Sémillon. In quegli anni anche il marchese Mario Incisa della Rocchetta lavorava su un taglio bordolese in quel di Bolgheri, ma, il Fiorano Rosso è la più vecchia bottiglia in stile bordolese prodotta ed etichettata in Italia (1956), in quanto il Sassicaia tra il 1948 ed il 1967 venne unicamente prodotto e consumato nella Tenuta San Guido.
Fu così che nacque il mito dei vini della Tenuta di Fiorano (prodotti in quantità limitatissime), il mito di un principe illuminato, un uomo di scienza e tecnica, pioniere ed avanguardista in un territorio tutto da scoprire: quello del Vulcano laziale.
Alberico Boncompagni Ludovisi si avvalse, come detto in precedenza, dell'enologo Palieri sino alla sua scomparsa.
L’amicizia coltivata nel tempo con Tancredi Biondi Santi e Luigi Veronelli fece sì che la produzione dei vini di Fiorano andò avanti e se ne diffuse la fama unitamente ad una serie di aneddoti e misteri che ruotavano intorno all'inviolabile cantina del principe, che aveva un carattere fortemente riservato.
Vicissitudini vollero che nel 1998 il Principe decise di spiantare l'intero vigneto senza dare spiegazione alcuna: la fine di un mito, di cui non si conoscono le reali motivazioni, che fu fatto rinascere nelle stesse terre e proprio sotto consulenza dello stesso Alberico, che intanto si era ritirato a Roma per problemi di salute.
La volontà di mandare avanti il mito di Fiorano fu del cugino di Alberico, Paolo, e di suo figlio Alessandrojacopo: già proprietari di una parte della Tenuta nella zona che comprende la chiesetta di Santa Fresca e la Villa vicina.

Tra il 1999 e il 2004 Alessandro acquistò altri 13 ettari di terreni vicino al nucleo iniziale. Impiantò insieme al padre un vigneto sperimentale e poi, sempre con la supervisione di Alberico, che gli cedette i diritti di reimpianto, impostò un nuovo vigneto che doveva ricalcare quello in precedenza espiantato.
Alessandro, allora poco più che ventenne e poco esperto, fu guidato da Alberico per la scelta dei terreni, dei cloni e dell’impianto del vigneto, fino alle operazioni di vinificazione: le stesse che continuano oggi sia nel metodo di lavorazione che nell’impiego delle maestranze.
Tuttora, dopo la raccolta manuale, le uve vengono pressate a mano, la vinificazione avviene nella Vecchia cantina, e poi il vino, per caduta, arriva alla Cantina Storica dove prosegue con l’affinamento nelle vecchie botti e il lungo riposo in bottiglia. Alberico fece applicare in tutto la sua esperienza passata ma, quando si trattò di scegliere i vitigni a bacca bianca, l’anziano cugino impose l’utilizzo di altri cloni: il Grechetto ed il Viognier.
Ad Alberico successe Alessandrojacopo che oggi è alla guida della Tenuta che vanta un'estensione di 200 ettari: comprende vigneti, uliveti, terreni seminativi, pascoli e soprattutto quella Cantina Storica con i vini che gelosamente conserva al suo interno. 
I vigneti della Tenuta di Fiorano si estendono su un terreno composto prevalentemente dalla pozzolana e dai sedimenti di polveri di eruzione e di trasporto riversati dal vicinissimo Vulcano laziale.
I vitigni sono stati impiantati con un'esposizione Sud ovest/Nord est che consente alle viti di ricevere la perfetta esposizione durante l'arco della giornata.
Dalle varietà a bacca rossa impiantate (Cabernet Sauvignon e Merlot) si ottengono il Fiorano Rosso ed il Fioranello Rosso, mentre con quelle a bacca bianca (Grechetto e Viognier) si producono il Fiorano Bianco ed il Fioranello Bianco.
Le pratiche in vigna ed in cantina rispecchiano fedelmente la tradizione storica dell'azienda, che prevede l'invecchiamento in botti di rovere di Slavonia da 10 ettolitri e un lungo periodo di affinamento in bottiglia nelle grotte naturali della storica cantina.
Adesso, a differenza di allora, c'è la voglia di far rivivere un mito e farlo conoscere al di fuori della tenuta.
Infatti Alessandrojacopo, supportato dal punto di vista agronomico ed enologico da Lorenzo Costantini, sta già programmando un estensione del vigneto dagli attuali 6 ha a 10.

Quest'oggi ho avuto la fortuna di degustare il rosso meno pretenzioso dell'Azienda, il Fioranello Rosso.
Prende il nome, come l'omonimo Bianco, dalla strada di accesso alla Tenuta, una traversa della Via Appia Antica.
È ottenuto da Cabernet Sauvignon in purezza, allevato in regime biologico, a controspalliera e con potatura a cordone speronato.
La densità d'impianto si aggira intorno ai 4500 ceppi/ha, con una resa massima di circa 60 q/ha.
Le uve vengono vinificate in acciaio a temperatura controllata, con la macerazione pellicolare che si protrae per tutta la durata della fermentazione alcolica, cui segue la malolattica. Successivamente il vino viene elevato in bottti di rovere per 12 mesi, con una ulteriore sosta in bottiglia di 6 mesi prima della commercializzazione.

Nel calice si presenta con una vivace e fitta veste rubina dall'orlo granato, composta nelle roteazioni del calice.
Al naso affascina per profumi che ricordano le more, i mirtilli, le violette di campo, la radice di liquirizia, ed una leggera nota vegetale e balsamica.
Il sorso è morbido ed avvolgente, sorretto da una buona freschezza, tannini risoluti ed una piacevole scia sapida.
Di grande equilibrio gustativo, e con una piacevole e lunga chiusura di bocca che richiama soprattutto le note fruttate e la liquirizia.

Ho avuto modo di apprezzare il Fioranello rosso in un calice abbastanza voluminoso e di media apertura, ad una temperatura che idealmente dovrebbe aggirarsi intorno ai 16°C. Personalmente lo abbinerei ad un piatto di Pappardelle con Provola affumicata, Porcini e Patate.


Prezzo in enoteca: 15-20
Contatti: www.tenutadifiorano.it

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina
 


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venerdì 14 ottobre 2016

Greco di Tufo, Vadiaperti, 1995

Di Antonio Indovino 

Greco di Tufo DOC, Vadiaperti, 1995
 
Ci troviamo tra le colline dell’Avellinese, più precisamente a Contrada Vadiaperti, in quel di Montefredane.
È qui che nel 1984 Antonio Troisi, da sempre impegnato nella viticoltura, decise di dar vita all’Azienda Vadiaperti (il cui nome trae spunto da quello della Contrada) e di imbottigliare e vendere a proprio marchio anziché sfuso.
Irpino, Professore di storia e profondo conoscitore delle antichissime origini della vitivinicoltura italica e del bacino del mediterraneao.
Il suo forte legame col territorio da sempre lo ha portato ad essere uno strenuo sostenitore e valorizzatore dei prodotti tipici della terra natia.
Da quella prima bottiglia, di Fiano per l’esattezza, la passione lo ha spinto a dedicarsi anima e corpo nella sperimentazione e nel perfezionamento delle sue tecniche colturali e di vinificazione.
Man forte e nuovi stimoli sono arrivati successivamente grazie al figlio Raffaele che, terminati gli studi chimici, ha immediatamente affiancato il padre grazie alla passione per il vino e la vite che gli aveva trasmesso.
L’imperativo, sin dalle prime battute, è stato la valorizzazione dei vitigni autoctoni.
Infatti, tra la fine degli anni ’80 ed i primi degli anni ’90 gli sforzi si sono concentrati  anche sul Greco, allevato nelle vigne di proprietà lungo le pendici di Montefusco a più di 600m s.l.m.
Successivamente, sempre mossi dalla voglia di valorizzare la tipicità “varietale” delle uve e dei vini legati al territorio, gli sforzi si sono concentrati sulla Coda di Volpe.
Per Antonio e Raffaele non’era semplicemente un’uva da taglio (come da disciplinare di produzione), ma, una varietà da cui ottenere un Vino a Denominazione di Origine, con una bottiglia ed un'etichetta propria.
Dopo la scomparsa del ‘professor Antonio’, Raffaele ha perseguito con la stessa passione e lo stesso rigore le regole ed i principi appresi dal padre nella conduzione dei vigneti e nella produzione dei vini.
Poco propenso a seguire le mode nel settore enologico (come papà Antonio), è sempre stato convinto che il vino si faccia in vigna. Infatti, vigneto per vigneto, è egli stesso a decidere il sistema di potatura, il programma di concimazione ed i trattamenti da adottare, nonché l’epoca vendemmiale.
La sua “mission” lo ha portato a sacrifici ed impegno nello studiare i suoli, i vitigni, i componenti degli acini…..
Sacrifici ed impegno nell’ analisi, di anno in anno, delle migliori strategie colturali ed enologiche, per rispettare i principi della vite e del vino o nell’individuare quali terreni ed esposizioni fossero i più indicati per un determinato vitigno, al fine di esaltarne in modo specifico le caratteristiche varietali: imperativo categorico del suo impegno enologico.
Tante sono state poi le soddisfazioni nel vedere i frutti di questo duro lavoro, nel vedere il percorso naturale secondo il quale da una gemma si giunge ad un mosto inespressivo che col tempo tramuta in un vino complesso ed intrigante.
Soddisfazioni che continuano tutt’ora, seppur sotto un altro brand, seppur in veste di consulente enologico e non di proprietario.
Una serie di vicissitudini (che non intaccano la filosofia che c’è dietro i vini di Raffaele) hanno portato alla nascita del marchio Traerte nel 2011 (letteralmente: tra strade di montagna), sotto il quale continueremo ad apprezzare i vini in cui Troisi darà come sempre tutto se stesso, forte di un’esperienza quasi trentennale.


Ho avuto la fortuna di reperire (con grande difficoltà) e degustare una bottiglia di Greco di Tufo targata 1995, prodotto con le uve di loc.tà Marotta a Montefusco, lungo le pendici tufacee e di chiara origine vulcanica di questa collina in cui le vigne arrivano a sfiorare anche i 700m di altitudine.

Di seguito vi riporto le mie personali impressioni.
Nel calice il vino si presenta con una vivida e consistente veste tinta d'oro antico.Al naso emergono profumi che ricordano gli agrumi canditi, fieno e fiori  secchi, il miele, lo zafferano, la pietra di zolfo, la polvere da sparo e l'incenso.
In bocca il vino sembra avere una doppia anima: prima accarezza ed avvolge il palato intero con la sua presumibile morbidezza, poi sorprende per la sua incredibile verve acida e la sua grande sapidità, che scatenano una continua (seppur lievemente viscosa) salivazione, invogliando immediatamente al sorso successivo. Notevole, oserei dire da antologia, la chiusura di bocca: interminabile per il continuo ripetersi con esatta successione e coerenza delle note riscontrate sul piano olfattivo, in un alternanza di sensazioni talvolta dure....talvolta morbide.
Un vino che ha sfidato con disinvoltura il tempo, dal naso e dalla beva imbarazzanti per come ha saputo appagare olfatto e gusto.

Ho avuto modo di apprezzare questo Greco di Tufo in un ampio calice ad una temperatura compresa tra i 12 ed i 14°C, dopo averlo stappato con un'oretta e mezza d'anticipo, ed in compagnia dell'amico sommelier Luigi Casciello: colui che mi ha fatto appassionare al mondo del vino!
Personalmente, è un vino su cui ho preferito meditare, anzichè pensare ad un eventuale abbinamento: il protagonista assoluto è stato lui!!! 


Prezzo in enoteca: 10-15€ (per le ultime annate in commercio)
Contatti: www.vadiaperti.it

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentin


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venerdì 7 ottobre 2016

Vom kalk, Ignaz Niedrist, 2012

Di Antonio Indovino

Südtiroler Blauburgunder DOC, Vom kalk, Ignaz Niedrist, 2012


Ci troviamo nella zona di Ronco a Cornaiano, nel cuore dell'Oltradige.
Qui, da oltre 170 anni, la famiglia Niedrist si occupa con dedizione e passione della sua tenuta.
Nella prima metà del ‘900 una serie di eventi storico-politici e familiari hanno segnato profondamente l’azienda. Il Trattato di Versailles prima (secondo cui l'Alto Adige venne annesso all'Italia), la scomparsa prematura del nonno Josef poi, ed infine le due guerre mondiali, hanni fatto si che la nonna Antonia Abraham si trovasse a prendere in mano le redini della famiglia e della tenuta. Ha portato avanti entrambe con successo, nonostante le difficoltà intrinseche, sospendendo però la produzione di vino.
Successivamente, nel 1989, sono stati i nipoti Ignaz ed Elisabeth a riprendere la viticoltura nella tenuta, con la ferma intenzione di produrre vini imbottigliati di grande qualità.
Il nucleo storico aziendale è stato successivamente ampliato con appezzamenti situati nelle zone di "Mühlweg" e di Ronco a Cornaiano e nella zona "Untersteiner" ad Appiano Monte.
Grazie a questi nuovi vigneti è stato possibile differenziare notevolmente la produzione.
Il quadro è stato poi completato con il vigneto di Lagrein, per molti anni coltivato in affitto, situato a Gries nella tenuta di famiglia di Elisabeth Berger.
Con gli anni non’è cresciuta soltanto la tenuta, ma anche la famiglia: Maria, Franz e Johannes sono le nuove leve, pronte al cambio generazionale ed a portare avanti la tradizione vitivinicola tramandata di generazione in generazione.
Dal 2001 i Niedrist, oltre a condurre con cura i vigneti e coltivare con la massima attenzione i vari appezzamenti della tenuta, hanno ristrutturato la vecchia cantina (ampliandola al contempo), in modo da poter creare un insieme armonioso e funzionale al tempo stesso.
Si è rinunciato consapevolmente ad una struttura realizzata con sistemi moderni: la tradizionale volta a botte, legno, acciaio e pietra naturale hanno conferito così un’atmosfera intima e le condizioni ideali per una corretta vinificazione e maturazione dei vini.

Quest'oggi ho avuto la fortuna di degustare il Vom Kalk.
È un vino ottenuto da Pinot Nero in purezza, allevato a Guyot sui suoli argillosi e calcarei ai piedi del Massiccio della Mendola, con una densità d'impianto di 6.000 ceppi/ha e rese sui 25-30 hl/ha.
Qui i terreni sono molto profondi e godono di un ottimo e costante approvvigionamento di acqua.
La vinificazione e la fermentazione avvengono in tini di rovere con prefermentazione a freddo, malolattica e affinamento in barriques sulle fecce fini per 12 mesi circa. Successivamente il vino resta a maturare in bottiglia per un anno prima della commercializzazione.

Nel calice il vino si presenta con una vivida e trasparente veste granata.
Al naso emergono profumi di cuoio, sottobosco, tabacco, bacche di ginepro, radice di liquirizia, frutti di bosco maturi, petali di fiori passiti ed accenni balsamici.
Il sorso è secco, morbido ed avvolgente, sorretto da una buona freschezza, tannini appena percettibili e ben maturi, una piacevole sapidità ed una calda e lunga chiusura di bocca che richiama soprattutto le note scure e terrose di sottobosco.

Ho avuto modo di apprezzare il Vom Kalk in un calice abbastanza voluminoso, ad una temperatura che idealmente dovrebbe aggirarsi intorno ai 14/15°C .
Personalmente lo abbinerei ad un piatto di "Orecchiette con Funghi e Salsiccia".

Prezzo in enoteca: 30-35€
Contatti: www.ignazniedrist.com/it/

Antonio Indovino, Sommelier dello Yacht Club di Marina di Stabia,
Responsabile del GDS AIS Penisola Sorrentina


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